Psicologia Militare: “l’educazione alla coesione”

L’EDUCAZIONE ALLA COESIONE

Marciare insieme aumenta la coesione e la collaborazione fra i commilitoni. Basta che uno soltanto non si muova in sincronia con gli altri per compromettere il passo dell’intero plotone.

La mano tenuta alta dietro la schiena determina un arretramento del busto all’indietro, la testa e lo sguardo si alzano e aumenta l’aspetto marziale.

Promuovere la solidarietà all’interno del gruppo è stato da sempre al centro di qualsiasi addestramento militare e, per millenni, la coesione fra commilitoni ha significato anche, se non soprattutto, vicinanza fìsica. Rimanere uniti e vicini in battaglia è sempre stato un mezzo per creare una barriera impenetrabile nelle operazioni difensive, per nascondere eventuali armi da impiegare sfruttando il fattore sorpresa, o una potente massa di sfondamento e di dispersione delle linee avversarie nelle operazioni offensive. Ancora oggi, nelle operazioni di ordine pubblico, un piccolo plotone di forze dell’ordine è in grado di far fronte ad una folla numericamente molto superiore, proprio grazie alla compattezza, alla vicinanza fisica, all’unità d’azione. Un plotone compatto può fendere una folla, disgregandola, o può isolare gli elementi più facinorosi. Se i membri delle forze dell’ordine agissero individualmente verrebbero facilmente sopraffatti. L’unione fisica permette inoltre di difendersi reciprocamente. Questa necessità rende anche conto del perché l’obbedienza al superiore, insieme alla chiarezza dei suoi ordini, rivestano un ruolo così importante nell’etica militare. Se i soldati prendessero delle decisioni in modo autonomo, senza alcun coordinamento, si troverebbero presto isolati, con la conseguenza di lasciare i compagni senza protezione, oppure di mettersi nell’impossibilità di essere soccorsi. Anche se ormai da molto tempo le operazioni militari non si conducono più con i soldati schierati ed allineati in fronti contrapposti, formati da plotoni ben squadrati che marciano ed eseguono tutte le azioni all’unisono, è tuttavia sintomatico che si faccia tuttora largo uso, soprattutto nell’addestramento “formale”, del marciare insieme. Non si tratta solo di una questione d’etichetta prescritta dai vari cerimoniali, ma di un vero e proprio modo di favorire, attraverso la condivisione e la sincronizzazione di comportamenti uguali (che includono, oltre al passo, anche la postura complessiva del corpo, l’orientamento del viso e dello sguardo, la gestione dell’arma, ecc), la coesione del gruppo.

Attraverso interviste e statistiche condotte fra un numeroso campione di combattenti impegnati in prima linea durante la seconda guerra mondiale, Marshall (1947) determinò che ciò che spinge al combattimento un soldato in situazioni estreme di pericolo, più che ragioni ideologiche, come l’aspirazione alla giustizia o il patriottismo, è la presenza, o la presunta vicinanza, di un commilitone. Alla domanda: «Che cos’è che spinge un soldato ad atti d’eroismo e a comportarsi coraggiosamente?», la maggior parte dei militari rispose che l’amicizia, la consapevolezza di essere depositari della fiducia e della confidenza dei propri compagni d’armi e la lealtà erano le motivazioni principali. Alla stessa conclusione giunsero altre ricerche che analizzarono le cause che avevano portato una parte dei militari a sviluppare dei forti disturbi psicologici. La ragione principale di una nevrosi da stress da combattimento risultò l’isolamento del soggetto in situazioni di pericolo, ovvero l’interruzione delle sue relazioni interpersonali.

Marco Costa è Ricercatore presso il Dipartimento di Psicologia

dell’Università di Bologna e Docente di Psicologia generale presso l’Accademia Militare di Modena. Può essere contattato all’indirizzo: costa@psibo.unibo.it

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